E’
diventato oramai un appuntamento fisso all’ora del brunch l’incontro con gli
autori presenti al festival. Gli spettatori più assidui si conoscono tra di
loro, si salutano e si danno appuntamento alcuni minuti prima in modo da avere
un po’ di tempo per commentare i film proiettati il giorno precedente. E le
facce nuove che si accomodano sulle moderne e colorate sedie dell’Hotel Urban
certamente non mancano, probabilmente attirate da qualche regista particolare o
dalla presenza di un attore a loro particolarmente gradito. Ancora una volta
il programma è ricco, e si andrà avanti a chiacchierare e confrontarsi fino alle
due, ora in cui viene sempre offerto un rinfresco e un bicchiere di frizzantino
beneaugurante.
E’ presente la giovane regista lituana Giedrè Beinoriutè
, che ha presentato in Sala Azzurra ieri sera il suo “Gyveno senelis ir bobute”
(Nonno e nonna). E’ un documentario d’animazione ispirato alla vera storia dei
nonni della regista, esiliati in Siberia nel 1948. La Beinoriutè parla della
tecnica utilizzata:”ho utilizzato le foto dei mie nonni perché erano l’unico
materiale che avevo a disposizione. Quand’ero piccola mi piaceva manipolarle, ci
giocavo, le amavo proprio per le loro piccole dimensioni”. La regista si
sofferma poi sulle ragioni intrinseche che l’hanno spinta a creare il
documentario: “quando dissi a mia madre che volevo raccontare la repressione
sovietica in stile fiabesco, lei inorridì. Pensava che non si potesse trasformare
in fiaba una tragedia del genere. Io non volevo raccontare un fatto storico, ma
solo una storia di persone. E lo stile “racconto infantile” sarebbe stato meglio
accettato dai miei connazionali, che fanno fatica solamente a parlare di quel
periodo di repressione sovietica”. Interessante, sempre dal punto di vista
tecnico, il ruolo preminente che la musica ha in questo documentario: “ avendo
del materiale esiguo, abbiamo dovuto inventare dei suoni da assimilare a quelle
foto silenziose”. La volontà da parte della Beinoriutè di dare un tono
fanciullesco è reso ancor più evidente dalla scelta della voce narrante, che è
quella di una bambina che vede e racconta tutti questi eventi.
Ospiti
molto attesi, dopo la performance letterario-musicale-cinematografica di ieri
sera al Miela, sono Massimo Zamboni e Stefano Savona. Lo storico fondatore dei
gruppi musicali CCCP-fedeli alla linea e CSI-consorzio suonatori indipendenti ha
presentato in anteprima assoluta per il Trieste film festival il suo ultimo
lavoro “L’inerme è l’imbattibile”. Il regista Savona ha invece presentato il
film documentario “il tuffo della rondine”, tratto da un’idea originale dello
stesso Zamboni in cui si racconta del ritorno del cantante a Mostar, dieci anni
dopo lo storico concerto fatto con i CSI. “Il mio lavoro” spiega il musicista
emiliano” è composto da una serie di incroci di pensieri che vanno avanti da
soli, che si evolvono continuamente fino ad oggi. La musica è come un ottimo
mezzo di trasporto, ci porta verso i luoghi che vogliamo far scoprire”. Zamboni
poi racconta soddisfatto delle emozioni trasmessegli da un giovane ragazzo di
Mostar: “lo avevo visto la prima volta dieci anni fa, l’ho incontrato di nuovo
nel mio ultimo viaggio in quelle zone e ho scoperto che è diventato un ottimo
musicista: ha cominciato a fare musica dopo aver assistito al mio
concerto”. Savona spiega invece il suo rapporto con il cinema: “mi piace
essere un documentarista perché non so costruire, mi piace raccontare quello che
vedo. Il mio incontro con Massimo è stato particolare: gli argomenti che tratta
lui mi erano sconosciuti, l’ultimo documentario che ho girato era su dei
guerriglieri , tema che poco si assimila al concetto di “inerme”. E’ stato molto
interessante scoprire storie nuove, nuovi punti di vista che non avevo mai
provato”. Anche Zamboni parla del suo rapporto col regista: “Stefano ha bisogno
di più tempo per digerire quello che sente, a me invece basta pochissimo, le mie
cose sono già scritte dentro di me e vanno solo scoperte, nel vero e proprio
senso di togliere la coperta. Siamo due opposti, per questo andiamo d’accordo”.
I due si sono dati appuntamento in un futuro prossimo per lavorare ancora
insieme su questo progetto, “magari – come ha detto Zamboni – per riuscire a
rendere il tutto ancora più omogeneo, per unire film e musica, che alla fine
secondo me sono la stessa cosa”.
“Allora ho capito che nessun animale
potrebbe fare un passo senza scheletro, cioè senza quella struttura interna. E
ho cominciato, coscientemente, a guardare bene gli alberi e le loro radici: come
si collocano e fino a quale profondità arrivano sottoterra. Senza struttura non
si fa niente…”. Questa frase, tratta dal libro a cura di Judit Pintér e Paolo
Vecchi dal titolo “Radici – Il cinema di Istvàn Gaàl”, racchiude parte del
pensiero del regista e, lato forse meno conosciuto ma sicuramente non meno
interessante dal punto di vista artistico, fotografo ungherese Istvàn Gaàl. Sul
poliedrico artista è in programma una rassegna monografica, che Annamaria
Percavassi introduce: “avevo nel cuore questa rassegna da più di dieci anni.
Alla fine siamo riusciti ad organizzarla insieme a Gaàl, lui ha scelto i film da
presentare. Adesso non c’e’ più, ma rimarrà sempre dentro di noi”. Accanto alla
direttrice artistica del festival siede Eva Vezer della Magyar Filmunis: “ c’è
grande commozione, ma voglio parlar di vita. Vita che si nota in tutte le opere
di Istvàn, come nella mostra fotografica che ci fa tornar alla mente la grande
creatività dell’artista”. Presente anche Angelo Bernardini, docente
universitario e caro amico di Gaàl: “ho conosciuto Istvàn al centro sperimentale
di Roma. Lui considerava l’Italia la sua seconda patria, tanto da volere la sua
autobiografia in Italiano. È venuto a mancare prima che potessimo riuscirci, ma
ci impegniamo tutti a pubblicarla entro la fine dell’anno”. La sala è piena, ci
sono amici e colleghi del regista al tavolo dei relatori e tra il pubblico. “Ben
vengano queste rassegne – ha continuato Bernardini – che servono a far conoscere
un’artista poliedrico come Gaàl. Il leit-motiv dei suoi film era la richiesta di
maggior rispetto per la dignità umana”. Prende poi la parola Paolo Vecchi,
curatore della rassegna, che racconta un simpatico soprannome con cui Gaàl
chiamava Bernardini: “Angelo ha origini sarde, quindi Istvàn si divertiva a
chiamarlo scherzosamente “Angelu”. Emozionato e soddisfatto di questa rassegna
anche il regista Elemer Ragaly: “si dice che un uomo è vivo finché è ricordato,
finché è nominato il suo nome, finché vengono proiettate le se opere. Quindi qui
a Trieste Istvàn è ancora vivo”. La musicologa Judi Varbiro ricorda così il
regista scomparso: “ho conosciuto Gaàl grazie ai suoi film, mi sono resa subito
conto della sua professionalità, del suo punto di vista diverso. Aveva un grande
interesse per tutti, per il mondo, per la gente, gli piaceva sapere riguardo ad
ogni cosa, dalla musica all’astrologia”. Un Istvàn Gaàl che ha stregato più di
una generazione: “esistono due generazioni che portano avanti Istvàn: una è la
mia – dice Terez Vincze, giornalista della rivista Metropolis - che dieci anni
fa ha fondato la rivista a lui ispirata. C’e’ un apprezzamento inoltre delle
generazioni successive, abbiamo insegnato le idee umanistiche di Gaàl
all’Università. Il linguaggio artistico del regista colpisce anche i giovani,
nonostante siano di una società strutturata in maniera totalmente diversa”.
Istvàn Gaàl dunque continua con la sua arte ad affascinare gente di tutte le
età. Oggi si è parlato a lungo di lui, è stato veramente un dibattito commovente
in suo ricordo. Una bella giornata. E, come probabilmente avrebbe detto Gaàl,
“che buongiorno voglia dire veramente buongiorno!”
“Si dice che un
uomo è vivo fino a quando il suo nome viene pronunciato”. Questo è il
concetto chiave della conferenza di oggi, ricca di lacrime versate da persone a
Gaál vicine, da persone a Gaál debitrici, da persone a Gaál
sconosciute. |